Sri Ramana Maharshi, discorso 465.
Sri Bhagavan spiegò a un giudice dell’Alta Corte in pensione alcuni punti dell’Upadesa Saram.
1) La meditazione dov’essere un flusso di attenzione ininterrotto come una corrente. Quando è ininterrotta viene chiamata samadhi o kundalini shakti.
2) La mente può rimanere latente e fondersi nel Sé; in questo caso dovrà necessariamente riemergere. Quando emergerà ci si ritroverà come prima, perché le predisposizioni mentali che erano latenti si manifesteranno di nuovo quando incontrano le condizioni favorevoli.
3) Le attività mentali sono state completamente distrutte. In questo caso non si ritrova la mente precedente, perché l’attaccamento si è estinto e non riapparirà mai più.
Anche se al ritorno dall’assorbimento nel samadhi l’uomo percepisce il mondo, questo sarà visto per quello che è, vale a dire un fenomeno dell’Unica Realtà.
Il Vero Essere può essere realizzato solo nel samadhi. Ciò che era, dev’essere anche adesso, altrimenti non potrebbe essere la Realtà ed Essere onnipresente. Ciò che era nel samadhi è anche qui e ora. Afferratelo, è il vostro naturale stato d’Essere.
La pratica del samadhi deve condurre a questo. Altrimenti di che utilità sarebbe il nirvikalpa samadhi se tutto si risolve a rimanere come un pezzo di legno? Prima o poi si dovrà uscirne ed affrontare il mondo.
Ma lo Jnani, che è nel sahaja samadhi, non è più toccato dal mondo. Tante immagini si muovono sullo schermo del cinema: il fuoco brucia tutto, l’acqua inzuppa tutto, ma lo schermo resta inalterato. Le scene sono solo fenomeni che scompaiono e lasciano lo schermo così com’era. Allo stesso modo, i fenomeni del mondo passano davanti allo Jnani lasciandolo inalterato.
La gente prova dolore e piacere nei fenomeni del mondo. Ciò è dovuto alla sovrapposizione [dell’identità coinvolta in quel fenomeno sul vero Sé]. Questo non deve accadere, è per questo che si ricorre alla pratica.
La pratica si dispiega su uno dei due percorsi: della devozione o della conoscenza. Ma anche questi non sono la meta. Bisogna conseguire il samadhi, che va praticato continuamente finché non si ottiene il sahaja samadhi. Allora non resta altro da fare.
* * *
COMMENTO DI SERGIO
Cosa deve fare l’aspirante che ha raggiunto il samadhi, cioè la capacità di rimanere nel Sé?
1) Deve renderlo continuo. Come? Mantenendo l’attenzione a rimanere il Sé e non assumere un’identità limitata della mente da sovrapporre al Sé. Qualora ciò accadesse, deve accorgersene il prima possibile e ritornare ad essere il Sé. Tale concentrazione con sforzo, dice Sri Ramana, diverrà poi lo stato naturale senza sforzo, il sahaja samadhi. Ma non crediate si tratti di sola fredda concentrazione, vi è anche abbandonare il proprio cuore al Sé. Perciò nella via della conoscenza vi è anche devozione, e viceversa.
Come avrete capito, il samadhi di cui parlo non è necessariamente uno stato di trance; può esserlo ma non necessariamente. Quando Sri Ramana aiutava in cucina a pulire le verdure, non era forse in samadhi? Era il Sé e la sua forma puliva verdure.
2) Il samadhi deve diventare più profondo, fino a padroneggiare il nirvikalpa. Ciò avviene continuando a mantenere l’attenzione ad essere il Sé e ad abbandonarsi ad Esso. Con ‘padroneggiare’ intendo dire che il nirvikalpa diventa assolutamente familiare, come se dicessi che il sonnambulo padroneggia il sonno perché può persino di camminare mentre dorme.
3) Il samadhi deve estendersi a tutti e tre gli stati di veglia, sogno e sonno, e non rimanere confinato al solo stato di veglia.
4) L’aspirante deve anche lavorare a scalzare tutte le vasana – nutrendo la salda consapevolezza che ogni fenomeno è vacuità, eliminando ogni possesso interiore, ecc.
Permanere nel Sé ed eliminare le vasana renderanno morta la mente dell’aspirante (mruta manas), così che non riemerga in circostanze ad essa favorevoli.
L’aspirante dev’essere assai cauto a dichiarare la vittoria, e sottoporsi a molte verifiche prima di farlo. Quando non cade più nell’inconsapevolezza del Sé (ignoranza) e non è più toccato dal mondo, allora può dirsi uno Jnani.