— Mi sembra di non riuscire a mettere sufficiente volontà nel concentrarmi sulla pratica e quasi sento di regredire nelle solite identificazioni mentali.
— Ricevo spesso messaggi come questo. Se viene da un sadhaka principiante, bisogna controllare se la pratica è svolta correttamente e se ha compreso i principi dell’Atma Yoga. Ma se si tratta di aspiranti senior quasi sempre è un problema di Concentrazione!
Incredibile quanto la Concentrazione sia in genere mal compresa nella via spirituale. Eppure Sri Ramana insegnava: “Questa Concentrazione [fatta con sforzo] si tramuterà nel sahaja, lo stato naturale [senza sforzo]”.
È mal compresa perché gli aspiranti sono attratti dall’espansione della coscienza che si produce dopo un’esperienza diretta o dopo un procedimento di mind clearing, mentre la Concentrazione dà frutti attraverso la persistenza. Indebolisce le vasana (spinte mentali), ma per farlo ha bisogno di tempo. Le vasana restano lì quasi uguali e non si vedono risultati. Poi, a un certo punto, si ottiene un grande salto qualitativo. Bisogna immaginarsi il crollo di una diga. Si creano fenditure che un occhio inesperto nemmeno rileva, la diga sembra intatta. Poi crolla tutt’in una volta!
Sull’Instabilità di Jnana (consapevolezza del Sé) e Concentrazione, ti allego un passo tratto dai ‘Discorsi con Sri Ramana Maharshi’. Non è enumerato perché scritto prevalentemente in discorso indiretto. Si trova dopo il discorso 57.
24 giugno 1935
Bhagavan Risponde a un Dubbio Sorto dallo Studio della ‘Sri Ramana Gita’
Nel Capitolo XIV, versetto 10 della ‘Sri Ramana Gita’ è scritto: “Con ulteriori progressi può prodursi anche l’invisibilità. Tale essere, essendo solo pura coscienza, diventa un siddha”.
L’ultimo versetto del capitolo XVIII dice: “La gloria dei siddha sorpassa qualsiasi immaginazione. Nella loro capacità di concedere grazie, essi sono uguali a Shiva, anzi sono Shiva stesso”.
Il significato è che dalla Realizzazione del Sé risulta un tapas (austerità) reale e ininterrotto. Attraverso la maturazione di questo tapas, alcuni jnani possono rendere i loro corpi immateriali e invisibili. Allora vengono chiamati siddha.
Non è possibile comprendere la grandezza dei siddha. Essi sono uguali a Shiva e possono anche concedere grazie.
In una Upanishad vi è un mantra che dice: “Colui che desidera la liberazione o la ricchezza deve servire un Saggio realizzato”. Qui non si fa menzione di siddha che concedono grazie. Lo jnani può farlo. Altri mantra che dicono: “Stabilendosi nella propria grandezza, Brahman è infinito” sembrano contraddire i versetti citati prima. I mantra: “Tutto questo è Brahman”, “Colui che conosce il Brahman diventa il Brahman stesso” dimostrano che uno jnani è onnisciente. Qual è dunque la differenza tra uno jnani e un siddha? La citata capacità di quest’ultimo di concedere grazie implica che il primo manchi di questa facoltà? Questo era il dubbio.
Il Maestro spiegò: — Le domande, nella Gita, sono state poste con uno spirito particolare e le risposte sono state date in conformità ad esso. La gente non vede altro che il corpo e vuole anche i siddhi (poteri occulti). Nella realizzazione del Sé non vi sono poteri che possano aumentarla, e come potrebbero ampliarla? Le persone che bramano i siddhi non s’accontentano della loro idea di jnana, ma desiderano anche i siddhi. E dunque probabile che trascurino la felicità suprema di jnana per cercare i siddhi. Per questo si inoltrano in vie laterali invece di percorrere la via regale, ed è molto facile che si perdano. Si dice che i siddhi accompagnino jnana [la realizzazione] solo al fine di guidare le persone in modo giusta e mantenerle sulla via regale. In realtà jnana comprende tutto, e uno jnani non sprecherà per i siddhi un solo pensiero. Lasciate che la gente ottenga il jnana e poi, se ne avrà voglia, cerchi pure i siddhi.
Ho detto che i siddhi esistono solo in relazione al corpo perché la loro manifestazione riguarda il corpo. Uno jnani e un siddha non sono differenti. Nella facoltà di concedere grazie va inclusa la grazia della realizzazione il Sé. I siddha non sono esseri inferiori, ma appartengono all’ordine più elevato.
Gli shastra sono stati scritti per venire incontro a diverse situazioni, ma il loro spirito rimane lo stesso. Nell’Halasya Mahima vi è un capitolo sugli otto siddhi in cui Shiva afferma che i Suoi devoti non sprecano mai un pensiero per essi. Shiva dice inoltre che non concede mai grazie. I desideri dei devoti sono appagati unicamente in conformità al loro prarabdha-karma [il karma che si manifesta nel presente]. Dal momento che è il Signore stesso [Ishvara] ad affermarlo, cosa mai potranno aggiungere gli altri? Per manifestare dei siddhi ci devono essere altre persone che li riconoscano. Ciò significa che in colui che li esibisce non vi è jnana. Per questo i siddhi non meritano neanche un pensiero. Soltanto jnana merita d’essere cercato e realizzato.
La traduzione tamil del quarto versetto del capitolo XVII della Sri Ramana Gita non era esatta. Sri Bhagavan indicò l’inesattezza e la corresse. La domanda di Vaidharbha era: “Nella pratica si scopre che i pensieri si agitano e si placano ritmicamente: questo è jnana?”.
Sri Bhagavan chiarì il dubbio: — Alcuni pensano che in jnana vi siano diverse fasi. Il Sé è nitya aparoksha, cioè eternamente realizzato, in maniera cosciente o incosciente. L’ascolto dell’insegnamento (sravana), dicono, dovrebbe dunque determinare un’esperienza diretta (aparoksha jnana) e non una conoscenza indiretta (paroksha jnana). Jnana però dovrebbe produrre l’annientamento della sofferenza (duhkha nivritti) mentre lo sravana da solo non è in grado di farlo. Perciò alcuni concludono dicendo che le sole esperienze dirette temporanee di jnana non sono la stabilità. L’instabilità è causata dall’insorgere delle vasana. Dopo la rimozione delle vasana, jnana diventa stabile e reca il frutto.
Altri dicono che l’insegnamento è solo conoscenza indiretta, e che attraverso la riflessione (manana) diventa esperienza diretta discontinua. Ciò che ne ostruisce la continuità sono le vasana, che si ergono con accresciuto vigore dopo il manana. Esse devono essere controllate. La vigilanza consiste nel ricordare “io non sono il corpo” e fare propria l’esperienza diretta (aparoksha anubhava) che si è avuta nel corso della riflessione (manana). Tale pratica è chiamata Concentrazione su un solo oggetto (nididhyasana), essa estirpa le vasana. Allora sorge lo stato sahaja (naturale), che è certamente jnana.
L’esperienza diretta nel manana non può provocare la sparizione della sofferenza (duhkha nivritti) e non può equivalere a moksha (la liberazione dalla schiavitù), perché le vasana sopraffanno periodicamente jnana. Per questo jnana risulta debole e diventa stabile solo quando le vasana sono state sradicate attraverso la Concentrazione.