Jnaneshwar poneva bhakti come precondizione a jnana. Vi sono buoni motivi per questo. Il potere di bhakti di dissolvere la separazione e irrinunciabile per un aspirante jnani, così come il potere di conferirgli la leggerezza dell’umiltà, ‘una matitina nelle mani di Dio’, che jnana da solo non può realizzare. I due approcci, bhakti e jnana, si complementano; ciascuno dei due può raggiungere il completamento solo grazie all’altro e viceversa.
Vi mostro un esempio. Poonja (Papaji) era un bhakta. Adorava Krishna e aveva la facoltà di vederlo, così come di vedere altre Divinità. Ma quando non vedeva Krishna, dov’era Dio?… La sua realizzazione di Dio era incompleta. Cominciò a cercare un Guru, ma tutti quelli che incontrava erano di livello inferiore a lui. Infine incontrò Sri Ramana, ed ebbe un atteggiamento di sufficienza perché si era abituato a scoprire che i guru da cui andava ne sapevano molto meno di lui. Quando lo incontrò gli chiese subito “Mostrami Dio”, perché si era abituato a credere che un realizzato dovesse vedere Dio sul piano duale. Ma Ramana gli rispose “Non posso mostrarti Dio perché Dio sei tu”. Poonja lasciò perplesso quell’incontro e andò a meditare 15 giorni su Arunachala dove, naturalmente, vide Krishna. Quando tornò da Ramana questi gli chiese “Dove sei stato tutto questo tempo?”. “Sono stato a meditare e ho visto Krishna”. “Ah hai visto Krishna” disse Ramana con ammirazione. Poonja si sentì inorgoglito pensando che davanti a lui c’era di nuovo uno che non aveva mai visto Krishna. Ma Ramana continuò “E lo vedi sempre?”. “No” rispose Poonja. “E cosa te ne fai di un Dio che una volta c’è e l’altra volta non c’è?”. L’orgoglio di Poonja ebbe finalmente uno stop. Da allora cominciò a seguire Bhagavan ai cui piedi ottenne la realizzazione finale.
Il pericolo di una bhakti priva di jnana è rimanere fermi all’antropomorfizzazione del Divino, identificato con una divinità (Krishna ad esempio) o con il Guru fisico, non riuscendo a superare la dualità. Poonja in seguito disse di essersi illuminato a 16 anni, ma raccontando la sua esperienza alla madre e questa gli disse “Dio è Krishna, perciò se non ha incontrato Krishna nella tua esperienza non hai incontrato Dio”, e così lo fuorviò. Questo è un esempio di come bhakti non fecondata da jnana sia incompleta. Ma è vero anche il contrario.
Tutti i grandi maestri jnani avevano bhakti completamente dispiegata. Shankara, uno dei padri fondatori dell’Advaita, non ha forse scritto ‘Bhaja Govindam” (Prendi Rifugio in Govinda) che è un testo bhakta? Anche se i loro insegnamento può essere asciutto, essenziale, dalle loro biografie si rivela inequivocabilmente la loro profondissima devozione.
Bhakti è dentro ed è indipendente da comportamenti esteriori che derivano dal temperamento della personalità. Bhakti è Dio, è un altro nome del Sé. Perciò chi dice che bhakti è una via indiretta, si riferisce solo a un possibile metodo, come ripetere il nome di Dio o contemplare un’immagine sacra qualche ora al giorno, non a bhakti in sé. Bhakti può essere praticata anche col metodo diretto, che è quello che propongo.
Swami Ramdas, che praticava il japa, la ripetizione del nome di Dio, fu un altro bhakta che si realizzò ai piedi di Sri Ramana. Dopo la realizzazione fondò un ashram insieme all’allieva Madre Krishnabai. È interessante notare che quando i devoti di Ramana incontravano ostacoli persistenti nell’autoindagine, egli suggeriva loro di dimorare per mesi nell’ashram di Swami Ramdas per impregnarsi di quell’atmosfera di bhakti che c’era là.
Jnaneshwar insegnava che bhakti deve venire per prima nella sadhana. In linea teorica ha senso, essendo bhakti il terreno in cui i semi di yoga e jnana possono germogliare. Ma nella realtà ogni aspirante si rivolge a Dio nel modo che gli viene meglio. Perché mai forzare il suo naturale approccio al Divino? Io insegno l’autoindagine, perciò a me vengono aspiranti orientati alla conoscenza. Io soddisfo il loro desiderio. Li guido verso esperienze dirette, stati unitivi sempre più elevati e a realizzare un certo distacco dal mondo illusorio. E quando vedo che non riescono più ad andare avanti in quel modo, dico: “Cosa manca in te?”. Attendo la loro autoindagine con l’elenco di tutte le loro debolezze, poi dico “Manca bhakti”. Ora posso spiegare loro il significato e la funzione di bhakti, e loro capiranno e saranno disponibili a impegnarsi a dispiegarla completamente. Sembrerà un po’ di tornare all’inizio della sadhana, ma in realtà non è così. Il lavoro che hanno fatto con jnana darà finalmente i suoi frutti quando avranno conquistato la bhakti. Il frutto è LA STABILITÀ NEL SÉ.
Un altro jnani che enfatizza bhakti è Lester Levenson, americano, poco conosciuto in Italia. Egli iniziò con l’autoindagine che lo condusse da subito a praticare il ‘Trasformare Tutto in Amore’. Poi l’autoindagine lo portò fino alla trascendenza del Supremo ed egli ottenne la realizzazione definitiva. La sua esperienza è interessantissima e merita un post dedicato che pubblicherò presto.
Una caratteristica degli aspiranti che non hanno maturato bhakti è l’instabilità, ossia le ripetute e scoraggianti cadute dagli stati elevati che raggiungono. Quando invece il Potere dell’Amore è maturo, da che parte puoi mai cadere che sei unito a Tutto? Non cadi più! Ma, anche senza il potere di bhakti, non tutti gli aspiranti hanno queste ricadute. Alcuni, una minoranza, si stabilizza su un buon distacco, ma non sono certo illuminati, e se ne rendono conto…
L’insegnamento di Michael Langford partì con “Contempla la Coscienza” (Awareness watching Awareness), ma poi Michael aggiunse “Ama Tutto”. Nella meditazione formale si contempla e si dimora nella coscienza, fuori dalla meditazione formale si pratica l’ ‘Ama Tutto’. Però sapete che a un certo punto il confine tra meditazione formale e vita normale salta, e vita e sadhana diventano la stessa cosa…
Un aspirante sulla via di yoga può essere un grande siddha che ha il potere di spostare montagne. Quando lascia il corpo potrebbe trasmigrare nel mondo degli dei, vivere un eone e avere tutto quello che desidera; ma ha ancora l’ego. E quando si è esaurito il suo buon karma e si avvicina la morte, egli vede la sua futura incarnazione di rango molto inferiore, e soffrirà molto. Un aspirante sulla via di jnana può avere stati di samadhi molto elevati, ottenere un buon distacco che gli permetta di non essere troppo coinvolto dalle alterne vicende del mondo; forse sarà anche un maestro che insegna ad altri, e tuttavia può avere ancora un ego, che spesso fa finta di non vedere.
Una pratica spirituale priva di bhakti conduce all’inorgoglimento, mentre il potere dell’amore di bhakti unito alla vera conoscenza di jnana conducono alla VERA TRASFORMAZIONE. Quale? LA DISSOLUZIONE DELLA SEPARAZIONE e quindi dell’ego.
Tutti i miei allievi avrebbero bisogno di praticare bhakti per completare il loro percorso o per sbloccare ostacoli persistenti nella loro sadhana. Ho incontrato delle resistenze nel proporlo, come sempre quando si propone qualcosa di nuovo. La domanda che dovrebbero porsi è “Ma perché resisto tanto a bhakti?”. Mi permetto di anticipare la risposta: Perché capite che bhakti, unita a jnana che avete già sviluppato, vi porta a quella trasformazione radicale che è LA FINE DELL’EGO.
Allora, dato che siete aspiranti seri e non vi siete mai tirati indietro, che ne dite di fare quest’ultimo passo e TRASFORMARE TUTTO IN AMORE? All’inizio può essere difficile, come tutte le cose nuove, ma poi che ineguagliabile gioia e pace e beatitudine e liberazione…