Shiva (il cielo limpido) è sempre davanti ai nostri occhi. Non lo vediamo perché, a causa della nostra identificazione coi movimenti mentali (le nuvole), ci agganciamo ad essi dando loro risalto, forza e durata.
Quando l’identificazione cessa, i movimenti mentali non sono più in grado di offuscare il cielo di Shiva, anzi tendono a quietarsi fino a raggiungere uno stabile silenzio interiore che io amo chiamare ‘il respiro del Sé’. Con l’espandersi, il silenzio e il distacco dalla mente sfociano in uno stato in detto ‘sonno desto’, in cui la coscienza dell’aspirante o del realizzato è dormiente verso la percezione del mondo ed è ben desta verso la percezione del Sé. In tali stati di profondità l’aspirante o realizzato può avere momenti di assorbimento in cui avviene il pratyahara (ritiro dell’energia dai sensi) anche mentre si sta ad occhi aperti, come è successo a Paola all’ultimo Ritiro, che ha smesso di vedere e udire per alcuni secondi mentre sedeva in diade, ad occhi aperti, nel ruolo di partner che ascolta.
Uno dei segni che l’aspirante è prossimo a conquistare la stabilità in Shiva (il Sé) è che non appena siede e chiude gli occhi raggiunge immediatamente l’immersione in Shiva, anche se un attimo prima la sua mente era agitatissima – il che è un evidente segno di relativa disidentificazione dalla mente.
Ecco perché è importante continuare la meditazione formale anche dopo che si è raggiunti una relativa stabilità nel Sé. Bisogna continuare fino a Manonasa: la disidentificazione definitiva con la mente. Allora la contemplazione di Shiva diviene lo ‘stato naturale’ e non è più necessaria una sadhana formale (pratica spirituale).