Alcuni aspiranti – io fui tra questi – si rifugiano nella via spirituale per sfuggire al loro sé relativo, tanto lo rifiutano. Pensate a quei samurai che alla fine della carriera, dopo aver ucciso molte persone, si ritiravano nei monasteri zen per trovare un po’ di pace… Ma naturalmente, per procedere nella sadhana, essi dovranno integrare le cose che rifiutano, che a tutti gli effetti sono delle vasana.
Se comprendete la domanda ‘Cosa non accetto e non mi piace di me?’ nella sua complessità, vi renderete conto che può diventare un koan che accompagna l’aspirante fino allo stato unitivo. Se guidassi ancora Intensivi di Illuminazione dedicherei un Ritiro a questo koan. Naturalmente i partecipanti più avanzati sgancerebbero presto la mente e contatterebbero il Sé. Bene, stiano nel Sé fin quando è loro possibile; poi però dovrebbero continuare col koan fino a che non esiste più niente di diverso e separato da loro in quanto Sé. Infatti, a un certo punto quel ‘me’ alla fine della domanda smette di richiamare l’io personale e assume la prospettiva del Sé, e allora la ricerca da personale diventa metafisica.
Non è necessario integrare tutte le innumerevoli identità una ad una. Se ne integrano alcune e poi, spontaneamente o quasi, l’integrazione avviene per interi blocchi o aree, man mano che ci si rilassa e si accettano quelle esistenze relative che in apparenza siamo stati.
Il metodo per farlo è quello che ho descritto nella prima parte.