J. — Quale differenza c’è tra uno jnani e un ignorante? per quale motivo dovrei essere la verità? quando morirò di “me” in quanto “individuo” non rimarrà…. nulla. Seguendo la legge di causa e effetto le mie vasana troveranno nuovo posto nella coscienza… ma comunque non sarò più J. …
Quindi perché dovrei interessarmi a dissipare il falso.
Questa domanda è stata posta due volte al Maharaj. L’ho trovata sia in “Io sono quello” sia in “Nessuno nasce nessuno muore”, ma non sono riuscito ad afferrare la risposta.
Sergio — Jnana è la suprema conoscenza di Sé.
L’ignorante è identificato con la mente e col film della vita; crede di essere una persona con un corpo mortale, desidera sopravvivere, sperimenta bisogni, dolore e piacere. La mente pensa, e lui pensa di pensare; il film gira, e lui pensa di essere parte del film, anzi, di essere il protagonista. Perciò sviluppa molti desideri. Questi desideri (vasana) vengono conservati nel corpo causale, che non muore quando il corpo fisico muore, e lo trascineranno in una nuova incarnazione.
Tu no sarai più J., ma come credi di essere il bambino J. quando avevi 5 anni, così il jiva, che è l’io disincarnato, quello che in occidente chiamiamo anime, sente di essere chi è stato tutte queste incarnazioni se ne ricorda alcune. Naturalmente questa è un’illusione e lo scopo dell’evoluzione spirituale è che il jiva si riconosca nel Paramatma, l’Assoluto. Il jiva in realtà non esiste.
Chi si realizza in vita, vedrà che è solo puro Essere-Consapevolezza. A tratti sarà anche conoscente dell’illusione, quando è nella vita di tutti i giorni e i sensi sono attivi; per esempio vedrà che Sergio ha un problema fisico e che forse deve operarsi, ma non è per niente identificato con Sergio e quello che succede a Sergio. Quando poi si ritira e i sensi sono inattivi, ha solo conoscenza assoluta, di Sé, e nessuna conoscenza relativa.
Questo stato è detto ‘sonno desto’, perché come il sonno senza sogni non ha nessuna percezione, ma solo la conoscenza di Sé, di Essere.
Il Libro tibetano del dopo-morte dice che quando il corpo muore si sperimenta il dissolvimento dei 5 elementi: caldo, freddo ecc. Dopo si entra nel buio del sonno profondo. Il Libro dice: “Riconosci la luce in quel buio”. La luce non è una lampadina, è la conoscenza di Sé. E allora può avvenire la liberazione anche nel bardo del dopo-morte. Ma se non hai mai praticato prima e non hai mai avuto questa esperienza in vita è difficile che tu riconosca la luce nel buio.
Ecco perché dovresti praticare.
J. — Quando uno jnani ‘muore’ permane nello stato di puro essere? In questo stato non c’è coscienza né presenza, né percezione vero? C’è solo consapevolezza senza esserne consapevole?
Sergio — No, c’è coscienza di Sé, di Essere, di Essere-Consapevolezza; non c’è percezioni e conoscenza relativa (di questo e di quello).
J. — Nisargadatta parla di completo dissolvimento della coscienza dopo la morte, quando l’apparato psicosomatico non è più funzionante e dice che resta solo la consapevolezza senza esserne consapevoli… Ovvero sarebbe il nulla assoluto
Sergio — Qui Nisargadatta è estremamente confusivo, a mio avviso. Si può essere coscienti con altri corpi non fisici. Le scritture e i santi parlano con gli dei. Anandamayi Ma lo faceva. Nel Buddismo, dopo la realizzazione chi èsente questa chiamata può acquistare il corpo di beatitudine col quale portare l’insegnamento negli infiniti universi. Gesù. Babaji, Lakulisha sono degli esempi.
Questa affermazione di Nisargadatta ha portato qualche aspirante che si ispira alla sua scuola ad affermare che la coscienza è il risultato della biologia dei neuroni, mente è la biologia dei neuroni ad essere il risultato della coscienza. Tutto nasce dalla coscienza e si riassorbe in essa, l’Assoluto ‘è’ coscienza!
Io non credo che dopo la morte del corpo dello jnani la coscienza di essere sparisca, dipende… Può durare per del tempo. Se quello jnani ha ottenuto il corpo di beatitudine, la coscienza di Jnana può ritornare per servire gli esseri senzienti. Scompare sicuramente col mahapralaya, il riassorbimento della creazione.
Meher Baba dice che l’Assoluto prima della creazione è coscienza non consapevole di sé, perché la conoscenza nasce dalla dualità. In quella Unità nasce un impulso di amore verso la propria stessa ‘perfezione’. Tale impulso spacca l’unità di Dio dormiente e proietta in pochi nanosecondi il sogno cosmico, il Big Bang.
Poiché l’Illimitato non è consapevole di sé, si identifica con l’impressione più limitata possibile: i primi gas cosmici dopo il Big Bang.
Dice il Tao: “Dall’Uno nasce il due (l’assoluto e la prima impressione che compare alla sua coscienza), dal due nasce il tre e dal tre nascono tutte le cose”.
Il tre è Shakti, che è un a tensione strutturale tra i due poli (come la scintilla di una candela per motori a scoppio) a integrare l’impressione che appare separata. Shakti crea forme sempre più sofisticate che possano avere una coscienza tale da integrare la dualità. Il massimo di individuazione sulla Terra appartiene all’uomo, e tra questi i più evoluti possono aspirate a riconoscersi nel Paramatma. la spirale centripeta dell’individuazione, la completa coscienza di sé come individuo, ha qui una inversione e nel punto di massima strozzatura volge in una spirale centrifuga, come la forma di una clessidra. Ora la coscienza può riconoscere che è Tutto, tutto ciò che appare non è separato ma egli stesso. È il Figlio (il jiva) che riconosce di essere il Padre (l’Assoluto che era dormiente). Così tutta l’esistenza illusoria altro non è che l’evoluzione della coscienza: L’Assoluto illimitato che riconosce se stesso come tale. Quando tale riconoscimento è completato, allora di nuovo l’implosione in se stessi diventa così forte da porta all’oblio della coscienza di sé; naturalmente è diverso dal piano causale, perché in questo caso non vi sono impressioni/vasana latenti… E così, fino al prossimo Big Bang. È il lila (gioco) divino.
Io ho avuto esperienze dell’assorbimento della coscienza, e così alcuni miei allievi. Attualmente, in armonia con l’insegnamento di Sri Ramana Maharshi, io insegno a realizzare stabilmente il pieno ‘sonno desto’. È quella la meta della sadhana. Se poi il sonno desto debba col tempo trasformarsi in sonno con oblio, questo avverrà naturalmente, non credi? Non è necessario che vi sia qualcuno lì a dirti “E adesso dimenticati di te”.
Può darsi comunque, che in futuro, padroneggiando meglio questo punto, il mio modo di insegnare cambi.
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Sergio: — Qui il colloquio con J. si conclude, ma io vorrei aggiungere qualcosa per il sangha
Fabrizio è stato molto fermo sull’assioma di Nisargadatta che dice “Alla fine bisogna disidentificarsi anche con la coscienza”. In effetti, se la coscienza di sé si sviluppa nella dualità illusoria, allora è un attributo aggiunto, non inerente. Sri Ramana non insegna così, egli dice che il Sé è autoconoscenza; ma non voglio sollevare un dibattito tra le due scuole che non saprei padroneggiare.
Vorrei solo chiedere a Fabrizio: che cosa ha comportato per te sapere che non sei nemmeno la coscienza?
Fabrizio: — Tutto è coscienza e questa è auto-consapevole. Questa auto-consapevolezza non ha una parte consapevole di un’altra parte, è come il calore e la luce di una fiamma… non sono essi stessi fiamma? Possiamo forse separarli?
Prendiamo ad esempio un indefinito spazio buio che ad un certo punto viene illuminato da una luce… In quel momento lo spazio, grazie alla luce, si auto-riconosce… E ‘solo’ a questo punto che può contemplare l’oscurità. Ma qui siamo di fronte un paradosso, poiché è ovvio che non può esserci oscurità nella luce, anche se in realtà c’è.
Non è possibile parlare di ciò. In conclusione non posso rispondere alla domanda.
Sergio: — Costui è un saggio!!!!