Sri Ramana Maharshi, Discorsi 140 e 141
Le note tra parentesi quadre sono di Sergio
140. D. – Che cos’è la Realtà?
M. – La Realtà dev’essere sempre reale. Non ha forme né nomi, ma sta alla base di nomi e forme. Poiché è illimitata, è la base delle limitazioni. Non è vincolata. Poiché è Reale, è la base delle irrealtà. La Realtà è ciò che è. È così com’è. Trascende il linguaggio, è al di là delle espressioni, come esistenza, non esistenza ecc.
141. La stessa persona, dopo aver citato un verso dalla Kaivalya Upanishad, chiese: “È possibile perdere Jnana [conoscenza] dopo averlo conseguito?”.
M. – Jnana, una volta rivelato, ci mette del tempo a stabilizzarsi. Il Sé è certamente alla portata dell’esperienza diretta di tutti, ma non come s’immagina. Esso è semplicemente così com’è. Questa Esperienza [Ramana usa spesso il termine ‘esperienza’ per indicare l’esperienza del Sé] è il samadhi.
Come il fuoco non brucia quando si ricorre ad incantesimi o ad altri espedienti, altrimenti brucerebbe, allo stesso modo il Sé rimane velato dalle vasana, mentre si rivela quando non vi sono vasana. A causa della fluttuazione delle vasana, Jnana ha bisogno di tempo per stabilizzarsi. Lo stato di Jnana instabile non è sufficiente ad impedire le rinascite. Jnana non può essere stabile insieme alle vasana.
È vero però che in presenza di un Grande Maestro [notate che dice ‘Grande Maestro’ e non semplicemente ‘maestro’] le vasana cessano di essere attive, la mente rimane tranquilla e il samadhi ha luogo, come il fuoco che non brucia grazie a degli espedienti. Così il discepolo in presenza del maestro ottiene la vera conoscenza e fa la giusta esperienza, ma per rimanere stabile in Jnana sono necessari ulteriori sforzi. Infine il discepolo realizzerà che questo stato è il suo Essere reale e così sarà liberato mentre il corpo è ancora in vita.
Il samadhi ad occhi chiusi è certamente positivo, ma bisogna andare ancora oltre, finché non si realizza che attività e inattività non sono contrarie l’una all’altra. La paura di perdere il samadhi mentre ci si dedica ad un’attività è segno d’ignoranza. Il samadhi dev’essere la vita naturale di ognuno.
[Mi permetto di aggiungere che si perde il samadhi mentre si è in attività perché c’è ancora un certo attaccamento all’oggetto dell’attività. Quando si è indifferenti al risultato dell’azione non si esce dal samadhi quando si agisce. Ad esempio, sto male e devo curare il corpo; vorrei rimanere assorbito nella Beatitudine, invece devo cercare di capire cosa non va e prendere provvedimenti. Se si rimane indifferenti a guarigione o peggioramento non vi è ragione di uscire dal samadhi. Dopo aver passato manonasa, Michael Langford ebbe un infarto. Non chiamò neppure l’ambulanza perché la sua assicurazione non lo copriva, ammesso che ne abbia avuta una. Cadde a terra e rimase steso lì. Poi si rialzò e il suo corpo continua a vivere ancor’oggi, ma il corpo avrebbe anche potuto non rialzarsi più].
Esiste uno stato oltre i nostri sforzi e l’assenza di sforzi e finché non lo si realizza, lo sforzo è necessario. Dopo che si è assaggiata la Beatitudine anche solo una volta, si cercherà ripetutamente di averla di nuovo. Una volta sperimentata la Beatitudine della Pace nessuno vuole rimanerne fuori o impegnarsi in altre cose. Perciò, per uno jnani è difficile essere impegnato nei pensieri, come per un ajnani è difficile essere libero dai pensieri.
L’uomo comune dice di non conoscersi; formula molti pensieri e non riesce a stare senza pensare. Nessun tipo di attività influenza lo jnani; la sua mente resta sempre immersa nella Pace eterna.