Vi riporto alcune testimonianze dell’ultima fase della malattia di Bhagavan. Com’è diversa la considerazione che Bhagavan ha del corpo rispetto a quella di un maestro noto che l’ha definito ‘il Paradiso’.
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Durante la malattia, furono molti i devoti che implorarono Bhagavan affinché usasse i suoi poteri per curarsi e quindi continuare a vivere per il bene dei discepoli.
Murugunar scrisse una poesia in Tamil con la stessa preghiera. Dopo averla letta, anch’io lo implorai: «II nostro caro poeta ha già offerto la sua preghiera, vi ha chiesto di non lasciarci per continuare a proteggerci. Anch’io, a modo mio, vi devo dire qualcosa. Cosa ci accadrà? Cosa sarà di tutti coloro che si sono abbandonati completamente ai vostri piedi, come bimbi indifesi? Cosa sarà di chi avete conquistato con gentilezza, tenerezza e premura, non pesando ai loro meriti ma ignorando le loro colpe, se ci abbandonate così? Sicuramente non avreste il cuore di abbandonarci alla deriva in questo modo! Per questo continuiamo a sperare che conserverete il vostro corpo, a nostro beneficio».
Murugunar, ogni giorno per undici giorni, presentò le sue preghiere senza sortire effetto [le undici odi sono ancora conservate nell’ashram]. Per lui, il corpo non aveva alcuna importanza. Negli ultimi giorni della sua malattia, diceva spesso: «Dicono che sto andando via, ma dove?».
Nel gennaio del ’52 a Madras, durante un incontro del Ramana Bhakta Sabha, Jagadesa Sastriar (un devoto salvato da una malattia mortale quando ormai ogni speranza sembrava perduta, grazie a Bhagavan), raccontò:
«Avevo saputo delle sue gravi condizioni e così, proprio pochi giorni prima della sua morte, mi recai all’ashram e lo pregai: “Quando mi avete strappato alla morte, mi avete dato una nuova prospettiva di vita. Se solo voleste, potreste vivere un altro po’, per il bene di tutti noi”. Bhagavan rispose: “È stato solo per dirmi questo che hai fatto tutta questa strada? Il corpo è un grande peso. Chi mai sarebbe ansioso di preservarlo?”». Ci aveva già raccontato queste cose, citando un antico detto della tradizione tamil: «Immaginate di andare a comprare una fascina di legna da un grossista di legname e di chiamare un facchino per farvela portare a casa. Durante il tragitto, mentre vi sta accompagnando, non vedrà l’ora di arrivare alla meta per potersi liberare dal peso. Allo stesso modo, uno Jnani è ansioso di liberarsi dal corpo».
Poi aggiunse: «Questo detto va bene come metafora, ma non è del tutto accurato. Il vero Jnani non è ‘ansioso’ di lasciar cadere il corpo, anzi è indifferente all’esistenza o non esistenza del corpo, essendone quasi inconsapevole». Quindi citò, prima dal sanscrito e poi in Tamil: «Così come chi è intossicato da una bevanda alcolica, non è consapevole se indossa o meno degli abiti, ugualmente, il Realizzato non è consapevole del suo corpo». Questo ricordo mi riporta alla mente una sua battuta. Lo tormentavamo affinché prendesse questa o quella medicina per uno dei suoi tanti malanni (di solito i reumatismi alle ginocchia e alle giunture), così un giorno ci disse: «Questo corpo è la nostra più grande malattia. Chi prenderebbe una medicina affinché la malattia continui ad esistere?».
[da Sri Ramana Maharshi ‘Ricordi’, Vol. 1, Edizioni ‘I Pitagorici’]