— Caro Sergio, nel mio ultimo messaggio ti dicevo di avere intenzione di intensificare la pratica. In effetti, per qualche giorno è stato così. Nei momenti liberi dalla pratica formale ho anche ascoltato e pronunciato la OM.
Dopo qualche giorno ho fatto un sogno simile al tuo in cui incontravi tua moglie e le parlavi. Incontravo D. che mi aspettava all’uscita di un seminario, ci abbracciavamo e ci ripetevamo di sentire la reciproca mancanza.
Nei giorni successivi è emersa una grande tristezza e la pratica formale sembrava qualcosa di lontanissimo ed estraneo. Poi la tristezza così intensa è passata ed è rimasta svogliatezza, mancanza di energia, blocco del respiro. Per quanto abbia tentato di ricordare l’autoindagine o di praticare la consapevolezza della consapevolezza, la mente non riusciva a stare ferma un attimo.
In più, l’incidente al ginocchio, per quanto non grave, ha messo in luce le tensioni e le paure legate all’essere sola, al non avere nessuno su cui contare in modo costante, seppure le amiche si offrano di aiutarmi.
Oggi va meglio, anche il ginocchio. Ti terrò informato
— È giusto che sia così. Non vedi le crisi di purificazione. Hai intensificato al pratica, anche solo intenzionalmente, e di conseguenza si è emerso un movimento di purificazione.
Il tuo sogno è un po’ diverso dal mio nel fatto che nel mio c’era il pieno ritrovarsi, mentre nel tuo c’era il sentire la reciproca mancanza. Quindi si tratta di un processo di purificazione: qualcosa rimasto sospeso è venuto fuori… la porta si è aperta e quindi è venuto fuori il sentirsi sola… Tutto lo stesso movimento di purificazione.
Quando emerge un grosso movimento di purificazione non si può più fare l’autoindagine a pieno regime, perché parte dell’attenzione dev’essere investita a digerire quel movimento. Continuando in maniera militaresca lo si sopprimerebbe.
È una situazione diversa dalla barriere fisse, ad esempio: essere distratti. Lì si persevera come un soldato fin quando la barriera comincia a cedere e poi crolla. Nel tua caso c’è bisogno di vivere esperienze che non si è stati in grado di affrontare quando si sono presentate. Comprendi la differenza?
In quest’ultimo caso l’aspirante fa due cose: da un lato si abbandona e si permette di vivere quel movimento purificatorio, dall’altro, quando sente che può, fa dei richiami di autoindagine per rimanere il più centrato possibile, ma non in maniera militaresca: in modo naturale.
Quando il movimento è stato consumato dona comprensioni/realizzazioni relative, e la pratica riprende spontanea.
Come nella diade, utile è parlare delle proprie esperienze di sadhana col maestro o con compagni avanzati, invece di rimanere isolati nel proprio problema. La comunicazione dissolve la mente che in essenza è isolamento.
Sono riuscito a chiarire?
— Sì, certo! L’isolamento è stato parte del problema e per quanto abbia formulato più volte le parole da comunicarti mi è mancata la spinta per farlo.
— Io penso che stai permettendo che queste impressioni vengano fuori. Esteriormente ti ritiri di più che all’inizio che ti ho conosciuta.
— Ti pare che all’inizio fossi meno chiusa?
— Mi pare che adesso permetti che le cose trattenute emergano.
— Però è la dimostrazione che la volontà in campo spirituale funziona fino ad un certo punto. Non è come andare in palestra…
— No, non lo è. Ma non pochi maestri di hatha yoga fanno così. Imitano l’atteggiamento di pace distaccata dei loro maestri e tirano avanti, pensando che così possano abbandonare la mente; in realtà stanno sopprimendo di conflitti…
Questo dimostra anche che praticare senza un insegnante è quasi impossibile. Se vuoi imparare a giocare al tennis prendi lezioni da un maestro, eppure molti pensano di poter fare una pratica spirituale senza un insegnante: non sono veramente interessati ad andare fino in fondo. India, Cina e Giappone sono società molto gerarchiche e quindi spesso descrivono la relazione maestro-allievo in quei termini. Ma non ha niente a che vedere con la realtà. Il rapporto maestro-allievo e familiare e di amore ed è basato sulla libertà. Sono l’affinità può tenere l’allievo vicino al maestro.