Mi pongo la domanda: a che serve tutto questo affanno se non si può fare niente? Mi viene in mente la dissertazione di Francis Lucille su sofferenza psicologica e sofferenza reale nel mondo relativo. Spesso la sofferenza psicologica è maggiore di quella concreta. Ecco perché dico: ogni giorno ha il suo affanno. Se si può fare qualcosa si fa, altrimenti perché preoccuparsene. Dovremmo comunque morire un giorno e non ci possiamo fare niente. Non conviene allora stare nel Sé e lasciare che Dio si occupi di tutto i resto? Non sto dicendo di essere passivi o indifferenti all’ingiustizia. Se si può fare qualcosa si fa; a volte si è chiamati a farlo e non ci si può tirare indietro: allora si fa. Ma che si possa o non si possa, la soluzione è sempre stare nel Sé. No alla sofferenza psicologica inutile; che anche si dovesse morire, se si muore con una mente così agitate e negativa si va incontro a rinascite infauste. Io non sto ai diktat della neomedioevalizzazione, resisterò fin dove posso. Da quando avevo 16 anni, cioè dal ’66, lotto per una società la cui economia non si basi unicamente sul profitto, ma non posso dire che io e quelli come me abbiano avuto successo. Al di là di analisi dettagliate, la questione di base è che qualsiasi sistema sociale dipende sulla maturità degli uomini che lo applicano. Il 5 ottobre c’è stata l’opportunità di un forte quanto facile opposizione alla neomedioevalizzazione, ma nessuno degli oppositori si è sentito di astenersi dal lavoro per 5 giorni; non si doveva nemmeno indire uno sciopero perché lo stesso dpcm lo consentiva. Ma non è stato fatto, e quelli non incontrando resistenza vanno avanti. Ci possiamo fare qualcosa? L’unica cosa, dal mio punto di vista è stare nel Sé ogni istante, che vuol dire che non c’è nessuna persona individuale ma solo il Potere Superiore che inonda di beatitudine; e se è il momento di morire in quanto persona individuale, sia fatta la volontà di Dio; tanto avverrà comunque prima o poi, no?