“Riconosci che non sei separato dall’esperienza” ti dice che non c’è nulla contro cui lottare, e quindi nulla da fare! Ciò depone il ‘doer’, l’io-agente, colui che vuole cambiare il mondo che in apparenza gli si oppone.
Una volta deposto l’io-agente, la seconda istruzione ti dice: “Tu sei la parte dell’esperienza che non cambia”. Da sola, questa istruzione condurrebbe al Testimone separato, ma poiché la premessa ha chiarito che tutto è Te, la seconda istruzione ti porta direttamente al Sé trascendente, e in brevissimo tempo nemmeno ti accorgi più del mondo. Per questo ho chiamato queste due istruzioni ‘Vademecum per la Liberazione’.
Ma non si tratta del nirvikalpa samadhi, che è uno stato di trance. Il sahaja samadhi bypassa e trascende il nirvikalpa. Negli Aforismi dello Yoga, Sri Patanjali afferma che senza nirbija samadhi (sinonimo di nirvikalpa samadhi) non si può ottenere la Liberazione. Ciò fa sì che parecchi yogi si leghino alle esperienze spirituali. Magari le ottengono in meditazione, ma appena fuori dalla meditazione le perdono, perché le esperienze relative, ivi inclusi i samadhi, non sono permanenti. Allora questi yogi, vedendo fallire ripetutamente il loro tentativo di rendere stabile ciò che per natura è impermanente, sotto il loro atteggiamento compassato mantengono una rabbia di fondo che spesso esplode in improvvisi in momenti di stizza. L’esperienza relativa è in continuo mutamento, ciò che non cambia è soltanto il Sé.
Rimanere ininterrottamente nell’identità del Sé, è il sahaja samadhi. Questa è l’unica esperienza immutabile, che va anche oltre l’esperire e il conoscere quando l’identificazione con la mente si dissolve (manonasa). Il Sé è prima della mente, quindi non ha bisogno né di mente né di conoscere; ma quando la mente ritorna, sa di essere Quello innominabile e inconoscibile, ed è sereno nel suo cuore. Soham, ‘Io Sono Quello’, ove il pronome relativo ‘Quello’ (in sanscriti ‘Tat’) evita che si attribuiscano definizioni a Ciò che è oltre i concetti.
Chiarito l’aspetto ontologico, ora dobbiamo chiederci come fa lo Jnani che è in sahaja samadhi ad affrontare il mondo, che continua ad apparire a causa delle necessità del corpo fisico. Questo apparente problema ha fatto sì che alcuni affermassero che si possa ottenere la Liberazione solo dopo la morte del corpo fisico (videhamukti), cosa che Sri Ramana indicava come non vera.
Lo Jnani, totalmente abbandonato al Sé, interpreta l’azione come puro servizio disinteressato al Divino. Si tratta dunque di puro karma yoga. Egli non coltiva alcuna intenzione personale (samkalpa) nel compiere l’azione; proferisce il meglio delle proprie abilità per servire Dio, ma non ha attaccamento alcuno né verso l’azione né verso i frutti dell’azione. In tal modo, anche quando il proprio corpo-mente è coinvolto nell’agire, egli rimane assiso nel Sé trascendente rimanendo nella più completa non-azione. Nel sahaja samadhi, lo Jnani è dunque interiormente nel nirvikalpa, pur non essendo esteriormente in uno stato di trance. L’amata sorella spirituale Mahasara ha espresso questo nirvikalpa interiore con la felice frase poetica: “Quando niente vede niente”. Per quelli come lei non v’è bisogno di attendere la morte del corpo per liberarsi.
Ma se il presunto Jnani dovesse nutrire anche una lievissima intenzione personale, e voler quindi che le cose vadano in un modo anziché nell’altro, egli ricadrà nell’ego, e forse si assocerà a quelli che asseriscono che la liberazione si può ottenere solo dopo la morte del corpo… In ogni caso non si può dire di lui che sia uno Jnani.
[Sul tema delle ‘intenzioni personali’ vedi anche “Il Potere Di Uno Jnani”]