Negli ultimi tempi ho avuto la fortuna di sentirmi assordata dalle mancate risposte, risucchiata dai molteplici stimoli esterni, immobilizzata dalla vastità di possibilità da cogliere, angosciata dal fallimento delle relazioni – che è quasi sempre un fallimento della comunicazione, come osservava Zygmunt Bauman a proposito di società liquida.
Ho avuto la fortuna, ho detto, perché questa inquietudine, la solitudine, il magma di ricordi a distogliermi dal presente e la sensazione di non essere a casa in me stessa mi hanno portato al ritiro di autoindagine in diade. La premessa serva quindi a chiunque perché possa riconoscere la fertilità del fallimento: fare un passo indietro dalla storia che mi stavo raccontando, dalle domande e dalle risposte della mente, dalla mania di controllo sul mio stesso destino, è stata la migliore scelta che potessi fare.
Ricercare il silenzio mi ha colmato di risposte senza contorni, ma solidissime. Di un vuoto senza confini, del tutto intangibile, ma presente e percepibile come lo spazio di cui necessita l’energia vitale per esprimere le sue qualità ed il diritto/dovere d’essere e partecipare, innanzitutto a sé stessa e alle più piccole e quotidiane esperienze dirette di vita, quindi al resto. E dal resto a sé stessa, senza distinzioni.
Quelle che sembrano solo parole di una filosofia già raccontata, stanno arrivando adesso e non mentre ero in meditazione. Questa è solo la traduzione di qualcosa che stavo davvero vivendo. E so già che le parole non basteranno a chi, come me, si è sentito impantanato nella confusione, frustrato dall’incongruenza tra impegno e risultati, scisso all’interno e quindi eternamente indeciso. Per questo vi chiedo di concedervi del tempo per Stare dentro di voi: la vita monastica mi ha permesso di dimenticare il cellulare, lo stimolo esterno più odiato dacché vivo lontana dai miei cari e che s’è fatto quindi, in apparenza, l’unico modo concreto per raggiungerli. Ho dimenticato le opinioni mie e altrui, le pubblicità per attirare e quelle che mi attirano. Nel silenzio imposto ho riascoltato quello che avrei veramente da dire. E non è poco, non è troppo, e ha di nuovo un senso: d’empatia, dolcezza, riso a cuore aperto. Nella neutralità ho trovato la gioia. Non ha molto a che fare coi tecnicismi, anche se potrei dire d’esser stata lucida come non ero da tempo nel trasmettere le informazioni su ciò che sto imparando, sulla panificazione ad esempio. Ho cucinato piacevolmente e placidamente per nutrirmi e nutrire, senza competizioni interne o esterne al mio volere. Le mie spalle e il mio collo si sono sciolti.
Ho sempre pensato d’avere “un anziano nella pancia”, che cercava calma e semplicità nei piaceri della vita. Mi ha sempre imbarazzato, come alle volte i gusti musicali dei nonni imbarazzano gli adolescenti alla scoperta del punk rock o dell’heavy metal. Gli influssi ambientali hanno alimentato l’insicurezza e mi sono resa succube di una ricerca del tesoro sulla stessa linea del progresso che – non soltanto, per carità – ma ci ha anche condotto al bisogno di tornare lenti e naturali, pena le psicosi individuali e collettive, i tumori, l’abbattimento della biodiversità.
Ho fatto esperienza, e tutto in un attimo, della correlazione tra nutrimento e personalità, qualcosa che avevo già esperito tutte le volte che ho scelto di depurarmi, e fisicamente, e dal bisogno di appartenere alle realtà circostanti. Ho indossato varie vesti: quelle dei modaioli e quelle dei trasgressivi, e non ero mai abbastanza l’uno, mai abbastanza l’altro. Ho sofferto l’indifferenza dei vicini, l’ottusità delle masse, la sordità del cuore che si fa comprare dal carismatico di turno. E non sono mai stata felice come quando ho smesso, e mi sono incamminata per una via nuovissima e antichissima. Nuovissima, perché mi sembra d’esser rinata. Antichissima, perché è come se questa beatitudine esistesse già prima che mi formassi come bimba e poi come donna. Venire al mondo è stato un atto di volontà che ha superato una paura primordiale, quella dello sconosciuto. Restarci ha un senso che non voglio avere più fretta o paura di scoprire. A tratti è stato davvero faticoso, e facilmente lo sarà ancora, ma che non siano i clacson in strada né le piaghe alle dita a distogliere l’attenzione del musicista dalla Melodia.
Con una mano sul cuore del cane Argo e gli occhi sul vento che non distrae le api laboriose dalla lavanda; e la compassione per la paura del cane Elsa, che non ha conosciuto il buono degli uomini nei suoi primi mesi di vita e fatica ancora ad avvicinarsi a loro; col cuore pieno di gratitudine nei confronti dei compagni di diade, dei maestri e dell’assistente, mi lascio andare ad un: magari ci ascoltassimo sempre così! Guardandoci dentro, e l’un l’altro, dritto negli occhi. Relazionandoci come capienze rispettose delle resistenze proprie e altrui, senza però alimentarle, senza nessuno scopo se non che quello di scardinare il cuore dai suoi pesi. Così ho fatto piena esperienza dell’identità, della fraternità.
Ho amato ricevere e dare, e pur non potendo toccare gli altri o abbracciarli, pur non avendo messo i pareri in conversazione, e fatto a gara a chi ce li ha più grossi, emozioni e pensieri! non mi sono mai, mai sentita sola, annoiata o povera. E due giorni dopo la fine del ritiro, non ne sono ancora uscita. Vorrei non uscirne mai più. Voglio che questo sia il mio nuovo koan (scopo) quotidiano: STAI NELL’ESSERE!
Grazie ancora ❤ ❤ ❤