Nel discorso 629, Sri Ramana Maharshi ribadisce quanto già detto nel discorso 624, e cioè che la conoscenza assoluta non distrugge l’ignoranza. Per distruggerla è necessario vritti-jnana, quell’Attenzione focalizzata che nasce dalla pratica spirituale. Tale concentrazione si tramuterà infine nello stato naturale (sahaja samadhi).
Lo Zen fa dell’Attenzione focalizzata il pilastro della pratica. In zazen l’aspirante deve fare attenzione alla postura del corpo; in meditazione conta i respiri, da 1 a 10, e se si distrae deve ritornare a contare da 1; terminato un periodo di meditazione, per sgranchire le gambe si compie il kinhin, una passeggiata con uno strano modo di camminare lungo il perimetro del dojo, sempre con grande attenzione; si compie ogni lavoro con grande attenzione ecc. Ma perché se lavo i piatti devo mantenere tutta l’attenzione a ciò che faccio e non posso spaziare? Per controllare la mente, perché, come dice Bhagavan, la forza della mente sta nell’essere rappresa. E dopo tutto questo esercizio, l’Attenzione focalizzata matura un salto quantico: diventa la Pura Coscienza illimitata, il Sé.
C’è una storia che testimonia quanto l’Attenzione sia il pilastro d’ogni pratica zen. Un famoso Roshi attraversa un villaggio. Un aspirante lo riconosce, si inchina davanti a lui e gli chiede un consiglio per la sua pratica spirituale. Il Roshi risponde “Attenzione”. “Infinite grazie, Maestro, potresti darmi ancora qualche consiglio?”. “Attenzione, attenzione”. “Ti sono grato, ma potresti dirmi ancora qualcosa?”. “Attenzione, attenzione, attenzione”. “Ti prego Maestro, perdona la mia stupidità, ma avrei bisogno di qualche spiegazione in più”. “Attenzione, attenzione, attenzione, attenzione”.
Quando Eihei Dogenji, il Patriarca della scuola Soto, tornò dalla Cina, i monaci lo attendevano sul molo. Gli posero molte domande sul buddhismo e l’illuminazione. Dogen rispose: “Non so niente di buddhismo e di illuminazione. So solo che le mie sopracciglia sono orizzontali e il mio naso è verticale”. Voleva dire: NON-MENTE!
Quando le nuvole si dissipano il sole splende naturale nel cielo. Quando i pensieri si arrestano il Sé appare in tutta la sua magnificenza.
Una volta che la pratica dell’Attenzione ha mostrato la Pura Coscienza Illimitata, l’aspirante pratica Shikantaza, la contemplazione su Ciò realmente che è. Dogen ammoniva “Non praticate Shikantaza come un esercizio. Siate consapevoli che Shikantaza è la realizzazione stessa”.
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Discorso 629. Era il giorno dello Shivaratri. La sera Sri Bhagavan rifulgeva di grazia. Un sadhaka pose questa domanda: “La ricerca del Sé sembra portare al corpo sottile (ativahika sarira, o puriashtaka, o jivatman). Ho ragione?”.
M. – Sono nomi differenti che indicano lo stesso stato, ma sono usati da punti di vista diversi. Dopo qualche tempo il puriashtaka* (il corpo sottile di otto parti) scomparirà e ci sarà soltanto l’Uno (Eka).
Solo vritti-jnana può distruggere l’ignoranza (ajnana). La conoscenza assoluta non è nemica dell’ajnana.
Vi sono due tipi di vritti (modalità della mente):
1) vishaya vritti (oggettive) e
2) atma vritti (soggettive).
La prima deve far posto alla seconda. Questo è lo scopo dell’abhyasa (pratica), che porta prima al puriashtaka e poi all’unico Sé.
* Il puryaṣṭaka (ottuplice) è costituito dai cinque soffi vitali (Prāṇa, Apāna, Samāna, Udāna e Vyāna), il Gruppo costituito dai cinque organi di senso, il Gruppo costituito dai cinque organi di azione, e dalla Mente come ottavo componente. Questo corpo non viene distrutto finché non è raggiunta la Liberazione Finale.
Nella Samkhyakarika, verso 40, è detto: “Ciò che migra è il corpo sottile, che è incapace di maturare esperienze, ma contenente le tendenze mentali”.
Secondo il Samkhya, i corpi sottili, prodotti all’inizio del ciclo cosmico da Pradhana (la matrice che contiene in potenza tutte le cose), uno per ogni Purusha, non limitati e non confinati in alcun corpo grossolano, non ostruiti da alcun impedimento materiale, imperituri sino alla fine del ciclo cosmico quando verranno riassorbiti, allo stato di seme, in Pradhana, trasmigrano da un corpo all’altro al momento della morte.