Ieri ho colloquiato con un praticante che è un grande appassionato del testimone.
Mi ha scritto: “L’unica cosa che conta è isolare il senso dell’io e guardarlo. Di conseguenza emerge il testimone che è sempre stato lì. Che uno stia pregando il Signore o facendo sesso (ha usato un’espressione più colorita) in un orgia o ammazzando qualcuno, Il testimone se ne frega”. Sollecitato da me, ha poi espresso biasimo verso gli Avatar che avrebbero fatto danno con il loro buonismo e con le religioni che sono scaturite da loro.
Anche se una comprensione era impossibile, data la radicale diversità di vedute, ci siamo reciprocamente rispettati. E io interiormente ho stimato la sua sincera passione, e sono certo che se continuerà si stabilirà nel testimone.
Così, mi è venuto in mente quello che da un po’ vado pensando. La coscienza realizza quello che vede. Se uno vede che la meta ultima è il testimone, realizzerà il testimone ultimo. Se uno vede che la manifestazione non è solo aria fritta, ma che il Divino è anche immanenza, immanenza che è amore e consacrazione nel manifesto, e quindi dharma come condotta etica (non dottrinale, ma dell’amore, il Bhagavata Dharma di Jnaneshwar), e quindi Santità, praticherà in altro modo e avrà una realizzazione di altro tipo.
La scuola di Nisargadatta pratica neti-neti (non so no questo, non sono quello) a tutto andare, e Ranjit Maharaj dice che la beatitudine è ancora un aspetto mentale, anche se molto sottile. Ramana Maharshi invece insegna che neti-neti va bene all’inizio, quando bisogna separare il Sé dal non Sé, ma dopo quella fase lo sconsiglia. Egli dice: “Non neti-neti, ma dimorare nel Sé”. Come conseguenza Sri Ramana Maharshi esalta continuamente la beatitudine del Sé e dice che la Realtà ultima è Sat-Chit-Ananda. Vi sono altre differenze tra le due scuole. Per la scuola di Nisargadatta l’Assoluto è inconscio e che la coscienza nasce dalla dualità o addirittura dalle cellule seminali (vedi Isabella di Soragna), mentre Sri Ramana dice che esiste solo Turiya, la piena beatifica consapevolezza del Sé. Anche Vasistha nel suo Yoga traccia una genesi diversa che non parte dall’Assoluto inconscio. Tuttavia la teoria dell’Assoluto inconscio è sostenuta da una minoranza di maestri, tra cui Meher Baba.
Inoltre, noi diciamo che il nirvana e il nirvikalpa sono la stessa cosa. Forse è così, ma per esserne certo dovrei fare tutto il percorso della vipassana, sperimentare il nirvana e vedere se è proprio la stessa cosa o vi sono delle sfumature diverse.
Narrando il pluricitato discorso di Ramakrishna con lo jnani, Aurobindo dice “Anche lo jnani ha ragione dal suo punto di vista, ma a me quella visione non interessa”. Con “non mi interessa” Aurobindo non si riferisce a una opinione mentale, ma al suo diverso piano di coscienza.
Così escludendo quelli che dicono di essere illuminati e non lo sono, non trovate che vi siano enormi differenze tra i realizzati? Lo so che vado a complicare un campo che non manca certo di complessità, ma la Verità va vista. Perciò vi invito a riflettere sulla mia proposizione: un solo Dio o Sé, ma piani di realizzazioni diverse.
La mia proposizione inoltre è democratica: ognuno ha la realizzazione che vede e che desidera e quindi si può essere tolleranti, non trovate?
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D.M. — È vero, un solo Dio ma diverse realizzazioni, anch’io vedo questo, anche confrontandomi. Per comprendere questo passaggio una volta mi è stata raccontata questa storia che probabilmente hai già sentito. La trovo bella:
Un maestro disse che Dio, il Se è infinito e totale, dagli infiniti attributi, e non può essere sperimentato completamente, ma solo in parte. Questa parte dipende dall’esperienza diretta, ogni esperienza diretta è peculiare e produce descrizioni diverse.
Per spiegare questo all’ imperatore, il maestro fece portare un elefante e chiese a dieci ciechi dalla nascita di descriverlo. I dieci ciechi lo toccarono e poi descrissero l’elefante.
Chi aveva toccato la proboscide, chi una zampa ruvida, chi una parte liscia e morbida, chi le zanne, e così via… Ognuno diede una descrizione diversa in base a quello che aveva toccato. Nessuno si era accorto della totalità ovvero l’elefante (il Se). Avevano descritto 10 esperienze diverse dello stesso Se.
Grazie Sergio, buon sabato…
Sergio — Quando io ho sentito questa storia, l’ho confinata alle esperienze dirette parziali. I 10 tori dello zen mostrano che l’aspirante una volta vede una natica del bue (la Verità), poi qualche pezzo in più, e finalmente vede tutto il bue. Invece ora vedo che non solo le esperienze dirette parziali sono diverse, cosa ovvia, ma anche le realizzazioni finali o presunte tali.
Io però sono più ottimista rispetto alla conclusione della storia dell’elefante. Le scritture dicono che si può raggiunge la Perfezione fino a ‘vedere’ tutto l’insieme. Credo invece che alcuni percorsi siano più limitati di altri, e quindi conducono a realizzazioni parziali. Chissà se nelle vite successive questi realizzati parziali completino il loro percorso, fino a vedere l’Intero Sé.
Ma di che Perfezione si tratta? Il Sé lo si realizza, sia col testimone che con altre vie, e quella è una perfezione finita. La perfezione infinita è quella di Dio nella forma, ossia quanto quella forma sia in grado di rispecchiare il Divino.
G.G. — Credo queste differenze dipendano dalle vasana residue di ognuno – che determinano il punto di vista, o i filtri da cui si guarda – e dal tipo di percorso. La realizzazione del Sé, in questo senso, può differire da persona a persona. La liberazione probabilmente no, se è in vita. Certo è che se devo scegliere tra i tanti, il mio riferimento rimane il Maharshi.
Sergio — D’accordissimo sulla differenza tra liberazione e realizzazione. Comunque anche escludendo le vasana, pratiche diverse si concludono a esperienze diverse. Se vedi i video di Mahasi Sayadaw, autorevolissimo maestro di vipassana, è sempre vigile, in allerta, perché loro praticano la presenza mentale, mentre chi pratica il dimorare nel Sé può anche sembrare mezzo addormentato. Per quanto superficiale possa essere, è un’esperienza diversa.